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Chi ha paura del manager cattivo? (seconda parte)

2019-05-16 13:41

Luigina Sgarro

Leadership, Psicologia organizzativa, Articoli, leadership, manager, manager cattivo, cattivo esempio,

Chi ha paura del manager cattivo? (seconda parte)

(seconda parte) Un manager cattivo è cattivo anche come manager, ma non è detto che un manager buono, gentile, benevolente, paterno, sia necessariamen

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(seconda parte) 


Un manager cattivo è cattivo anche come manager, ma non è detto che un manager buono, gentile, benevolente, paterno, sia necessariamente un buon manager. Nella prima parte dell’articolo ho iniziato a tracciare le caratteristiche del "cattivo manager ma gentile" che ho incontrato più spesso nella mia vita professionale, oramai (ahimè) lunga e variegata, che ha spaziato dalle multinazionali alle imprese familiari, dalle pubbliche amministrazioni alle aziende del lusso. Mi sono limitata ad alcune, ma invito i lettori ad arricchire l’elenco, attraverso i loro commenti, con quelle che hanno potuto osservare loro stessi. 

 

Parliamo ripeto, di brave persone, pessimi manager:  


6. Non è attento a capire i fini dell’organizzazione e non ha una propria visione in proposito. 

 

Se è nel settore privato non si preoccupa troppo di capire il mercato, nel pubblico è poco attento alle evoluzioni sociali e culturali (queste importanti anche nel privato). Gioca di rimessa, aspetta che gli venga detto che cosa fare, trascura i segnali dell’esterno, se anche coglie le informazioni, non sempre è in grado di farne una sintesi personale, diventando, seppure ad un livello elevatissimo, un esecutore passivo di operatività. Fa quello che gli viene chiesto. Può fare comodo ma non assolve una parte importante del suo ruolo.   

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7. Cerca di accontentare tutti.

 

Vuole evitare i conflitti e questo lo porta spesso a perdere di vista le priorità, sacrificando a una buona relazione o al "quieto vivere" l’efficienza nel lungo periodo, con esiti, a volte, anche disastrosi, ma spesso nel plauso generale. Va d’accordo con tutti, a spese dell’efficacia.   


8. Vuole essere amato.

 

Vive male il rischio dell’impopolarità, desidera essere apprezzato come persona e, qualche volta, questo desiderio di piacere lo porta a prendere decisioni che incidono negativamente sul clima organizzativo e, nel tempo, sulla relazione. Evita di criticare, invece di provare a farlo in modo costruttivo. Per sentirsi in pace con se stesso arriva a non volere neanche più vedere i comportamenti disfunzionali, per convincersi in buona fede che va bene così. Rischia di non essere né amato, né rispettato.   


9. Fa questioni di principio, dietro lo scudo dell’integrità, è rigido. 

 

Si mantiene sulle proprie posizioni anche quando queste potrebbero essere (o di fatto lo sono) messe in discussione dai dati e dai mutamenti sopravvenuti. Dice di essere, si racconta, e può anche essere percepito come, "tutto d’un pezzo", in realtà rischia di essere poco flessibile e sprovveduto di fronte ai cambiamenti. È una persona "retta" che si spezza ma non si piega in un mondo che cambia in continuazione , scambiando per coerenza la mancanza di flessibilità.   


10. Sacrifica la propria visione e la propria vita personale.

 

Eccessivamente dedito al lavoro e al team, coltiva poco la propria dimensione privata. In questo modo può perdere di vista categorie di interpretazione importante e sottovalutare le esigenze e i bisogni di chi ha una dedizione inferiore alla sua, investe eccessivamente sul lavoro e rischia di sovraccaricare di significati esistenziali ed emotivi le relazioni lavorative. Si può contare su di lui ma a un prezzo elevatissimo per se stesso e per gli altri.   


Non pretendo, con questo elenco, di aver esaurito l’argomento, volevo solo evidenziare come essere un manager buono non significhi, necessariamente, essere un buon manager. 


E voi, che esempi avete? Che storie conoscete?      


Per leggere la prima parte, clicca qui.